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"Quando
lo conobbi nel 1980 stava giusto finendo di costruire i set per Shining. Ci
incontrammo per la prima volta e parlammo molto di film. Mi sarei trasferito sui
suoi set per girare I Predatori dell’Arca Perduta quando avesse finito. Quando
il suo set venne distrutto, dovremmo prima girare in Francia per dare modo a
Stanley di finire per poi lasciarci costruire "il pozzo delle anime"
dove si trovava l'entrata dell'Overlook Hotel, quel famoso salone dove Jack
Nicholson batteva a macchina".
"Dopo
la fine delle riprese, rividi Stanley e andai a casa sua a Londra per cena e mi
chiese "Ti è piaciuto il mio film?" L'avevo visto una volta e Shining
non mi era piaciuto la prima volta che lo vidi; da allora l'ho visto 25 volte,
uno dei miei preferiti. I film di Kubrick ti piacciono sempre di più, ma il
fatto è… ti sfido a nominare un film di Kubrick che riesci a spegnere una
volta iniziato. E' impossibile, hanno tutti questa specie di sicura! Ma non mi
era piaciuto la prima volta: gli parlai di tutto ciò che mi era piaciuto e lui
capì subito e disse: "Steven, è ovvio che il mio film non ti è piaciuto
molto" e io: "Mi sono piaciute molte cose" e lui "Ma forse
sono più le altre. Dimmi cosa non ti è piaciuto". Allora gli dissi:
"Beh, la cosa che mi… ho trovato Jack Nicholson, che è un grande attore,
ho trovato che la recitazione fosse grandiosa ma mi ricordava quasi il teatro
kabuki giapponese". Disse: "Vuoi dire che Jack ha esagerato?" e io
dissi: "si qualcosa del genere" e lui disse: "Va bene e ora
veloce, senza pensarci chi sono i tuoi attori preferiti in assoluto? Dammi
qualche nome". Così velocemente dissi: "Spencer Tracy, Henry Fonda,
Jimmy Stewart, Gary Grant, Clark Cable" e lui: "Fermati" disse:
"Ok, dov'è James Cagney in quella lista?" e io pensai: "Beh, è
ai primi posti" Stanley disse: "Ah, ma non è tra i primi cinque, non
consideri James Cagney uno tra i cinque migliori attori, vedi io si. Ecco perché
il lavoro di Jack è così grandioso".
"Ogni
conversazione telefonica era un'ispirazione per me: a Stanley piacevano le
informazioni, gliele fornivi spesso, informazioni che lui voleva e io gliele
fornivo. Conoscendolo ho capito la dinamica del nostro rapporto, Stanley mi dava
consigli, collaborava con me io gli raccontavo una storia che volevo dirigere e
lui mi faceva domande difficili: "Cosa c'è di interessante? Perché
vorresti fare quel film? Mi sembra molto noioso. Come puoi renderlo
interessante?" Ti spingeva continuamente. Mi ha dato lo stesso, se non più
di quanto avrei potuto offrirgli io. Prima mi ha dato i suoi film, poi la sua
amicizia, che voleva dire anche il suo tempo e non c'è dono più grande che si
possa fare".
"Quando
guardi tutti i suoi film, anche se secondo me, hanno tutti una cosa in comune,
la sua maestria è impeccabile, in ogni film che ha fatto la sua arte è
impeccabile, le luci, le carrellate, i movimenti lunghi i primi piani in Barry
Lyndon, le inquadrature, l'illuminazione, le finestre per la luce di sfondo,
quella è la combinazione esatta! Devi essere molto preciso per accontentare
Stanley, così poteva mettere la pittura sulla tela in modo da farti apprezzare
il quadro; doveva essere perfetto, la scelta di obiettivi, il suo lavoro di
steadycam negli ultimi anni, impeccabile! Il migliore nella storia, nessuno in
assoluto può girare un film meglio di Stanley Kubrick, era impeccabile, ma il
modo in cui narrava le storie a volte era antitetico al modo in cui di solito
vengono raccontate e credo che a volte Stanley lo facesse solo per essere
diverso e aveva un modo specifico di raccontare una storia. Non voleva darsi
arie: "Sono molto diverso da te" diceva: "Perché dobbiamo
raccontare ogni storia allo stesso modo?" mi diceva. Negli ultimi anni
della sua vita continuava a dire: "Voglio cambiare la forma, voglio fare un
film che cambia la forma" e io: "Non l'hai fatto con 2001? Mi disse
"Solo un po', ma non abbastanza" e continuava a cercare modi diversi
di raccontare le storie".
"La
prima cosa che rende Kubrick speciale è il fatto che era un camaleonte: non ha
mai fatto lo stesso film due volte, ogni singolo film è un genere diverso, un
periodo diverso, una storia diversa, un rischio diverso. L'unica cosa che univa
tutti i suoi film era l'incredibile maestria che aveva nella sua arte e nel
montaggio, la recitazione e la posizione della cinepresa, ma ogni storia era
diversa e ogni storia, in qualche modo, era così misteriosa nel modo in cui
veniva narrata che ti manteneva curioso: "Come andrà a finire? Non riesco
ad immaginare cosa succederà" e tutti i suoi film sono pieni di alti e
bassi, di sorprese nella trama e sorprese nei personaggi che li devi vedere più
di una volta perché desideri quella stessa sorpresa. Stanley era un genio,
potevi guardare uno dei suoi film 15 volte e anche sapendo cosa c'era dietro
l'angolo te ne dimenticavi ed era di nuovo una sorpresa; non conosco nessun
altro che possieda quella magia".
"Ritornai
più volte nella mia mente al film che avevo scelto di mostrare ai miei amici la
domenica, ora americana, quando venni a sapere che Stanley era morto: venne
della gente quella sera che doveva venire a cena in ogni caso, e parlammo tutta
la sera di Stanley, e volevo mostrare a tutti una scena che per me simboleggiava
quanto fosse profondo il cuore di Stanley e quanto potesse amare e mostrare le
sue emozioni. Lo accusavano infatti di essere un regista senza emozioni; io
penso che fosse un regista emotivo e così feci vedere l'ultima scena di
Orizzonti di Gloria dove Christiane, che poi ha sposato, interpreta la
prigioniera tedesca che si alza e canta davanti ai soldati francesi e commuove
tutti quanti, e mentre i soldati piangevano, piangevamo anche noi guardando
l'ultima scena, non tutto il film, quella ultima scena, da sola, ci toccò tutti
e due persone che non avevano mai visto Orizzonti di Gloria rimasero ugualmente
colpite da quella scena e per questo per me rappresenta Stanley come essere
umano". |
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Milena Canonero è forse la più famosa costumista italiana: ha vinto due premi Oscar, uno per "Momenti di Gloria" (1981) e l'altro per "Barry Lyndon" (1975), quest'ultimo Oscar condiviso con Ulla-Brit Söderlund, nonché 5 Nominations (fra cui una per "La mia Africa"). Per Kubrick ha realizzato i costumi anche in "Arancia Meccanica" e "Shining". Per Arancia Meccanica, la sua prima collaborazione con S.K., nonché il primo film a cui lei ha preso parte, in che misura vi siete ispirati al romanzo di Burgess? Il romanzo A clockwork Orange descriveva a tinte forti dei personaggi ambientati in un futuro piuttosto lontano. Kubrick invece voleva seguire una direzione differente, per creare una sorta di ambiguità temporale che ci avvicinasse all'epoca in cui lavoravamo. Dunque non abbiamo creato un mondo completamente nuovo perché non era nelle sue intenzioni andare verso uno "Science Fiction Movie" vero e proprio. E per ciò che riguarda l'aspetto più immediato del suo lavoro, ovvero l'ideazione dei costumi, si può dire che sia rimasto qualcosa di Burgess... L'unica cosa in cui sono rimasta fedele al libro sono i cod-pieces, cioè le protezioni dei Drughi. Tuttavia nel romanzo risultavano molto elaborate mentre io ho preferito adottare una soluzione più semplice. Poiché ero alla mia prima esperienza nel mondo professionale del cinema, Kubrick mi ha dato molte indicazioni introducendomi alla lunga preparazione del suo film. In primo luogo mi ha coinvolto nella ricerca dei luoghi e mi ha mandato a fotografare certi ambienti sotto la direzione del production designer. Stanley Kubrick voleva che mi rendessi conto di cosa lui cercasse. Così il mio primo strumento di lavoro è stata una macchina fotografica, una Nikon con grandangolare. Abbiamo fotografato moltissimi sopraluoghi perché S.K. è un regista che vuol fare la sua selezione dopo che si è esaurita la scelta. Ha una grande avidità artistica e intellettuale. E mi ha sempre tranquillizzata, dicendomi di non preoccuparmi dell'organizzazione, ma unicamente dell'immagine. Procedendo nel lavoro elaboravo delle soluzioni e ad un certo punto ne abbiamo parlato. Tra le altre cose gli ho esposto il progetto di vestire i Drughi di bianco, come infatti appaiono nel film. Questo è stato il punto di partenza. In quel periodo le gang e gli skin-heads erano una realtà sociale di cui si parlava molto. Io, allora, mi trovavo già a Londra e, pur stilizzando, mi sono ispirata a ciò che vedevo intorno a me. Arancia Meccanica fece scalpore per il modo in cui affrontava il tema della violenza.... E' vero, ma a parer mio quella di cui si tratta nel film di Kubrick è una violenza molto metaforica e non gratuita. Nello stesso periodo uscì un altro celebre film sulla violenza, Cane di Paglia, e ci fu chi lo avvicinò al film di Kubrick.... Sono dei confronti piuttosto superficiali, che non riescono a cogliere l'aspetto profondamente morale di un film come Arancia Meccanica. Il messaggio è chiaro: non si può eliminare l'aggressività di un individuo, per quanto violento esso sia, se non c'è volontà da parte dell'individuo stesso, perché si finisce con il castrarlo e col lasciarlo in balia della violenza altrui. Ed è meglio che rimanga così piuttosto che un uomo che non ha scelta. La scelta tra il bene e il male. Con Kubrick avevate parlato della violenza prima di iniziare le riprese ? No, non è un regista che si sieda a tavolino perdendosi in dettagli per spiegarti il film. Lo realizza e chi lo vede ne ricava la sua personale conclusione. L'opera è lì sul copione, è nel modo in cui la gira e la fa interpretare. La realizzazione di Arancia Meccanica è stata coinvolgente ? Si, moltissimo, è stata la più eccitante esperienza di lavoro della mia vita. Dagli studi che stavo completando sono passata al grande cinema: costumista in un film di Kubrick.... Nell'osservare il suo modo di girare il film, gli obiettivi che usava, le luci che sperimentava, come entrava nei dettagli e come dirigeva gli attori, mi rendevo conto che si trattava del lavoro di un genio, nonostante la mia mancanza di esperienza. Quando è stata invitata a lavorare per Arancia Meccanica si è imposta di far valere alcune sue idee precise oppure... No, assolutamente. Le cose prendono forma, maturano, non si risolvono certo all'improvviso, soprattutto in fase iniziale. Kubrick mi ha circondata di persone assai esperte sul piano organizzativo, mentre su quello artistico mi ha lasciato grande libertà di espressione. Lei ha preso parte alla realizzazione di tre dei più celebrati film di Kubrick: Arancia Meccanica, Barry Lyndon e Shining. A proposito di Barry Lyndon, come lo considera, più realistico o poetico ? Lo considero un film molto poetico, ma di un poetico tutto particolare, perché ironizza sulle debolezze del protagonista. E' un film di una bellezza più pittorica che realista. In ogni suo lavoro Kubrick inventa una tecnica adatta per il suo film e in Barry Lyndon domina il tracking-zooming, questa grande apertura di campi visivi insieme alle zoomate, i lunghi movimenti di macchina che si accompagnano alla musica. Il "passo" stesso del film, il suo andamento è del tutto differente rispetto alle altre opere. Kubrick è nuovo ogni volta che dirige un film, non si copia, non si ripete. Qui sta il segreto della sua unicità. Pur rimanendo lo stesso, perché le sue opere sono sempre attraversate da uno humour sottile e particolare, sa formulare ogni volta una scrittura adatta all'opera che realizza, come succede in Arancia Meccanica, oppure in Shining. Entriamo adesso nel merito del suo apporto più diretto al film: i costumi... Ci siamo appoggiati ad una ricerca pittorica reinterpretandola per non cadere nell'accademismo. All'epoca del film ho girato l'Europa per vedere cosa c'era di già disponibile, per sapere se dovevamo realizzare tutti i costumi o solamente una parte. Così ci siamo accorti che molti degli abiti che avremmo potuto noleggiare erano insoddisfacenti, tagliati in un modo che io definisco teatrale, con le spalle quadrate, moderne, confezionati con tessuti inadatti. Così tutti i costumi che appaiono in Barry Lyndon sono stati confezionati apposta per il film, fatta eccezione per cinque modelli - solo cinque! - affittati in una casa di noleggio di Roma. Abbiamo allestito un laboratorio di oltre quaranta persone, cosa piuttosto inaudita prima di allora per un film, e assieme a Ulla Britt Söderlund supervisionavamo questo enorme lavoro. I costumi di Barry Lyndon furono naturalmente tagliati sui modelli dell'epoca, con cura molto particolare anche ai busti e alla biancheria dei tempi. Solo le scarpe furono realizzate da Pompei di Roma. Naturalmente abbiamo voluto dare alle scene una certa eleganza, romanticizzando quel periodo storico. E questa è stata l'indicazione che Kubrick mi ha dato per l'armonia del suo film. Soffermiamoci sulle indicazioni di Kubrick per Barry Lyndon. Stanley desiderava che il film avesse una sua poesia, che riflettesse una visione idealizzata e ironica del Settecento; non era nelle sue intenzioni restituire un'immagine realista e cruda. Per questo, come prima cosa, mi mandò in Europa a comprare tutte le edizioni disponibili delle illustrazioni d'epoca al fine di costruire una biblioteca di referenti; da lì si fece una scelta che influenzò l'ispirazione visiva del film. Ci siamo ispirati molto a certi pittori dell'epoca, tra i quali, ad esempio, Gainsoborough, Reinolds, Chadowiecki, Chardin, Stabs, Cooper, Zoffany. Fu anche molto suggestivo e completamente nuovo l'impiego delle candele come fonte di illuminazione. Stanley aveva fatto adattare una lente speciale Zeiss che non era stata mai utilizzata prima per un film, grazie alla quale ha potuto fotografare delle scene realmente a lume di candela. Anche in quel caso Kubrick aveva sperimentato un'innovazione tecnica adatta per il film. E nel lavoro successivo, Shining, Kubrick utilizza con grande perizia la steadicam, un'altra innovazione tecnica che tanta parte avrà nel cinema americano a venire.... La steadicam era stata da poco inventata da Garret Brown e pochissimo utilizzata prima di allora. In Shining invece veniva impiegata con continuità come uno degli elementi espressivi portanti perché rendeva bene la situazione carica di ansietà dell'Overlook Hotel. Kubrick aveva chiamato l'inventore stesso della macchina affinché si prestasse a fare da operatore per il suo film. Questi rimase con noi per tutto il tempo di lavorazione. Ci vuole una grande abilità e una notevole agilità per usare bene la steadicam. Tra le tante leggende che sono nate sul lavoro di Kubrick, una riguarda le magliette del piccolo Danny di Shining: secondo alcuni il regista avrebbe girato diversi ciak vestendo il bambino in modo sempre diverso, per avere poi la possibilità di scegliere la maglietta giusta in fase di montaggio.... Questa è una vera stupidaggine, che solo gente che non è del mestiere si potrebbe inventare. [...] Se è per mettere a tacere una volta per tutte una simile "leggenda" le rispondo che è certamente falsa. Ci sono tanti metodi per vestire gli attori e per fare approvare i costumi dal regista. Si può cominciare dai bozzetti, poi ci sono le foto delle prove. A volte, durante le prove, i registi vogliono essere presenti; altre volte preferiscono non esserci e lasciarti completa carte blanche, così li trovano sul set già pronti. Naturalmente questo avviene dopo che sia stato discusso assieme il look. Kubrick, visti i primi esemplari e la direzione che si segue, ti lascia molta libertà. I costumi per il piccolo protagonista di Shining servivano a descrivere il divertimento e l'amore della madre verso il figlio e viceversa; Wendy, la madre, indossa invece dei costumi che le conferiscono quell'aria sospesa tra le nuvole, un misto di donna e bambina. E quando "l'orrore" invade la scena, questo contrasto diventa ancora più evidente. Ad ogni modo, prima di girare si fa un piano di lavoro che prevede tutti i vari cambiamenti di costume secondo le esigenze del copione e del budget. Nessun regista sarebbe mai così insicuro o ottuso da non sapere cosa vuole e da girare la stessa sequenza con vari cambiamenti per poi scegliere solo in fase di montaggio! Il regista può avere varie scelte per l'interpretazione o i set-ups, ma non di certo per delle magliette ! Questa come altre leggende si lega all'idea mistificante di regista che ha il controllo totale della scena e che in fase di montaggio realizza il mito del cinema come creazione pura... E' vero che Kubrick dedica moltissima cura ai dettagli e alle ricerche. Kubrick va a fondo in tutto: si occupa della regia, del montaggio, ma anche del lancio del suo film. Cura di persona perfino il doppiaggio in lingua straniera, come ben pochi registi fanno. All'uscita dei suoi film fa controllare le copie, i proiettori e la qualità del suono nelle sale. Anche su questo nacquero inverosimili leggende che non perdo tempo a ripetere. Kubrick non è un eccentrico irragionevole come certa gente vorrebbe fa credere ma un uomo di genio, un grande artista che quando fa o decide qualche cosa lo fa con intelligenza. Per tornare ai costumi, fu Stanley a insegnarmi l'importanza di disegnare il "total look" dei personaggi e dell'atmosfera. Mi diceva che gran parte del cinema è la testa e quindi dovevo cominciare da lì. Lavoravo con Barbara Daly, make up, e Leonardo, hair stylist, due grandi artisti e cari amici che avevo introdotto a Stanley. Leonard aveva da poco ideato i colori elettrici e stravaganti che più tardi furono ripresi nel punk-look. Con lui elaborai in Clockwork Orange i capelli con le meches viola e verdi delle ragazzine nella sequenza del milk bar e delle ragazze che Alex si porta a casa. Peccato che non si vedano quasi sullo schermo. Con Barbara decidemmo che i Drughi avrebbero dovuto avere degli elementi di trucco stilizzato. Il più riuscito fu quello di Alex. L'occhio con la ciglia finta. Prima provammo con entrambe le ciglia; questo gli dava uno sguardo strano ma non terribile. Ma quando togliemmo una ciglia capimmo che l'occhio rimasto con la lunga ciglia finta rendeva quello sguardo inesorabile e surreale adatto al personaggio. A Kubrick piacque tantissimo. In Barry Lyndon introducemmo un certo tipo di make-up che si doveva notare nelle scene eleganti ma che nello stesso tempo doveva apparire delicato, mai moderno, per riportarci al make-up di quei tempi, e ai quadri d'epoca. Inoltre, nel diciottesimo secolo, in certi ambienti gli uomini erano in competizione con le donne per belletti e ciprie, perciò in alcune sequenze introducemmo anche per loro un make up chiaro e dei rouges che li rendevano candidi e perfetti come bambole, senza nulla togliere alla loro virilità. Con Barbara avevo fatto molte ricerche sul tipo di maquillage che si usava all'epoca, così scoprimmo che era anche molto dannoso, e naturalmente noi lo riadattammo per non danneggiare i nostri attori. Credo che raramente si fossero visti sullo schermo attori tanto truccati. Dopo allora questo look è stato più volte ripetuto, ma al momento era molto innovativo. Le parrucche furono ispirate dalle ricerche, ma francamente nella realtà erano molte più brutte, grossolane, sporche, e anche in questo caso abbiamo preferito riferirci ai pittori che idealizzarono il Settecento. Molte parrucche furono fatte apposta per il film anche perché il repertorio che avevamo visto in giro era inaccettabile. Ma il lavoro è stato condotto in modo sempre ragionevole, perché con Kubrick non si sperpera e non è affatto vero quello che dice Vincent Lebrutto nel suo libro su Stanley Kubrick, il quale racconta di quindici parrucche che sarebbero state preparate solamente per Ryan O'Neil. In realtà Ryan aveva solo due parrucche e tre code, le code si applicavano ai suoi capelli che venivano pettinati in varie maniere; mentre per Marisa Berenson avevamo tre parrucche e due mezze teste. Certo, tra attori e comparse alla fine creammo qualche centinaio di parrucche. E l'enorme libreria di ricerche che avevo messo su per Stanley era sempre a nostra disposizione. A lui piace il concreto e la parte più eccitante era quando io e Ulla gli mostravamo i prototipi che avevamo preparato. Ricordo ancora quando, tutte incipriate da Barbara Daly come se fossimo state di porcellana, imparruccate da Leonard, il busto e un enorme cappello, presentammo il look inglese alla Gainsborough. Prima degli attori eravamo noi a fare da cavie, e Stanley mi fotografò per serbare il disegno del personaggio. Questo periodo di preparazione (che noi chiamavamo di pre-production) era il più eccitante e con Kubrick si lavorava in maniera molto semplice, direi quasi domestica. Spesso abbiamo lavorato nel garage di casa sua adibito a laboratorio, prima di stabilirci in altri posti quando poi il lavoro si ingrandiva. A casa di Stanley eravamo circondati da un ambiente caldo e simpatico, e da tanti bellissimi cani, golden retrievers e gatti. Quando poi cominciavamo a girare, Kubrick dava a tutti i capi di dipartimento un Volkswagen mini-van. Dentro al nostro, che guidavo quasi sempre io, avevamo organizzato un piccolo ufficio d'emergenza. Eravamo sempre di corsa. Specialmente ai tempi di Barry Lyndon, che comportò tutti quei cambiamenti di luoghi. La polizia conosceva la "scuderia Kubrick" e mi ha spesso lasciata andare quando mi fermava per eccesso di velocità. In Shining invece non ci fu bisogno di questo metodo di trasporto dato che il film fu girato quasi esclusivamente negli studi di Elstree. Anche gli esterni dell'hotel e il labirinto con la neve, furono ricostruiti in studio. Lei ha lavorato per tre dei più celebri film di Kubrick, ne ricorda uno con maggiore entusiasmo? Sono molto grata del fatto che Stanley mi abbia chiamata così spesso. Ciascuno dei tre film è importante per me. Barry Lyndon ha portato a me e a Ulla un Oscar, ma anche gli altri sono legati a momenti davvero belli della mia vita.... Avere fatto parte del mosaico, avere contribuito alla realizzazione visiva è certamente una grande soddisfazione. Un contributo non secondario per un regista visionario come Kubrick... E' il contenuto e non necessariamente l'immagine l'aspetto più importante di un film. Con Kubrick l'enorme soddisfazione è consistita nella possibilità di collaborare a tre opere che soddisfacevano entrambe le esigenze. Lo sguardo che trasfonde nei suoi film è unico. |
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Ho
visto A Clockwork Orange di Stanley Kubrick a New York: per entrare ho
dovuto fare a gomitate come tutti gli altri. Mi è parso che lo spettacolo
meritasse tanta ressa: è in tutto e per tutto un film di Kubrick, tecnicamente
brillante, arguto, puntuale, poetico, capace di schiudere allo spirito nuove
prospettive. Sono riuscito a guardare il film come una totale ricostruzione del
mio romanzo, e non come una semplice interpretazione; non è azzardato affermare
che si tratta dell'Arancia meccanica di Stanley Kubrick, e questo è il più
grande omaggio che io possa rendere alla maestria del regista. Ma
resta il fatto che il film è nato da un libro, e ritengo che alcune
osservazioni sul film inevitabilmente mi riguardino. In termini filosofici, nonché
teologici, l'arancia di Kubrick è frutto del mio albero. Scrissi
Arancia meccanica molto tempo fa, nel 1961 e ho qualche difficoltà a
fornire delucidazioni su quello scrittore ormai lontanissimo che, dovendo
guadagnarsi da vivere, era arrivato a produrre cinque romanzi (tra i quali
questo) in quattordici mesi. Il titolo è la cosa più facile da spiegare. Nel
1945, al ritorno dal fronte, in un pub di Londra ho sentito un cockney
ottantenne dire di qualcuno che era "sballato come un'arancia
meccanica". L'espressione mi incuriosì per la stravagante mescolanza di
linguaggio popolare e surreale. Per
quasi vent'anni avrei voluto utilizzarla come titolo per qualche mia opera: ne
ho avuto poi l'occasione quando ho concepito il progetto di scrivere un romanzo
sul lavaggio del cervello. La
stampa britannica aveva parlato con una certa insistenza dell'aumento della criminalità.
I giovani alla fine degli anni Cinquanta erano agitati e cattivi, insoddisfatti
del mondo del dopoguerra, violenti e distruttivi, ed è a loro (poiché sono più
riconoscibili dei malviventi dei tempi andati) che tanti fanno riferimento
quando parlano di crescente criminalità. Che
fare di questi ragazzi? La prigione o i riformatori non fanno che peggiorarli:
allora perché non risparmiare il denaro dei contribuenti sottoponendoli a un
facile condizionamento, a una sorta di terapia del disgusto, che generi in loro
un'associazione tra l'atto di violenza e il malessere, la nausea, o persino
evocazioni di morte? Furono in molti ad approvare questa proposta (che all'epoca
non era una proposta del governo, ma semplicemente un'idea espressa da singoli
teorici, per quanto influenti). Arancia
meccanica doveva essere una sorta
di manifesto, addirittura una predica, sull'importanza di poter scegliere. Il
mio eroe, o antieroe, Alex, è veramente malvagio, a un livello forse
inconcepibile, ma la sua cattiveria non è il prodotto di un condizionamento
teorico o sociale - è una sua impresa personale, in cui si è imbarcato in
piena lucidità. Alex è cattivo, e non solo traviato, dunque in una società
organizzata in modo corretto azioni crudeli come le sue devono essere punite. però
la sua cattiveria è umana: negli atti aggressivi possiamo riconoscere potenzialità
presenti in noi, che per il cittadino non criminale si concretizzano nella
guerra, nell'iniquità' sociale, nella cattiveria che si esercita in famiglia,
nei sogni che si coltivano nel proprio cantuccio. Alex rappresenta l'umanità'
in tre modi: è aggressivo, ama la bellezza, si serve del linguaggio. E'
paradossale che il suo nome si possa intendere come "senza parola",
mentre egli possiede un intero vocabolario inventato, suo personale, un gergo di
gruppo. Eppure non spende neanche una parola per ciò che riguarda la gestione
della comunità, o l'organizzazione dello Stato: per lui quest'ultimo non che è
un semplice oggetto, una cosa lontana come la luna, anche se meno passiva. Da
un punto di vista teologico, il male non è misurabile. Eppure io credo nel
principio che un'azione possa essere più malvagia di un'altra, e che l'atto
ultimo del male sia la disumanizzazione, l'assassinio dell'anima - il che ci
riporta a parlare della possibilità di scegliere tra azioni buone e cattive.
Imponete a un individuo la possibilità di essere solo e soltanto buono, e
ucciderete la sua anima in nome del bene presunto della stabilità sociale. La
mia parabola e quella di Kubrick vogliono affermare che è preferibile un mondo
di violenza assunta scientemente - scelta come atto volontario - a un mondo
condizionato, programmato per essere buono o inoffensivo. Nel
film, così come nel libro, il male compiuto dallo Stato, facendo il lavaggio
del cervello ad Alex, è molto spettacolare. Alex ama Beethoven, e ha utilizzato
la Nona sinfonia come stimolo per i suoi sogni di violenza. Questa è stata la
sua scelta, ma nulla gli avrebbe impedito di usare quella musica come semplice
consolazione, o assumerla ad immagine dell'ordine divino. Il fatto che nel
momento in cui il condizionamento ha inizio lui non abbia ancora compiuto la
scelta migliore, non significa che non lo farà mai. Ma
a causa della terapia del disgusto, che associa Beethoven alla violenza, questa
scelta gli è preclusa per sempre. E' una punizione che agisce a livello
involontario, ed equivale a derubare un uomo - atto stupido e irrazionale - del
suo diritto a gioire della visione divina. ciò
che sconvolge sia me che Kubrick, è che alcuni lettori e spettatori di Arancia
Meccanica sostengano di avervi trovato un compiacimento gratuito nel
ritrarre la violenza, il che trasforma l'opera da "messaggio sociale"
a mera pornografia. Certo,
senza la violenza sarebbe stato più gradevole, ma la vicenda dell'emendamento
di Alex avrebbe perso forza se non si fosse potuto vedere da che cosa lo si
stava correggendo. Per me, ritrarre la violenza doveva essere un atto catartico
e caritatevole insieme, perché mia moglie è stata vittima di una violenza
crudele e inconsulta a Londra nel 1942, all'epoca dei bombardamenti: è stata
violentata e picchiata da tre disertori americani. Forse i lettori del mio libro
ricorderanno che l'autore dell'opera dal titolo Arancia meccanica è uno
scrittore la cui moglie è stata violentata. Alcuni
spettatori del film sono stati turbati dal fatto che Alex, malgrado la sua crudeltà,
è comunque degno di affetto. Ma se noi ci disponiamo ad amare il genere umano,
dovremo amare Alex come membro pur sempre rappresentativo. Se Arancia Meccanica, così come 1984, rientra nel novero dei salutari moniti letterari - o cinematografici - contro l'indifferenza, la sensibilità morbosa e l'eccessiva fiducia nello Stato, allora quest'opera avrà qualche valore. |
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Anthony Burgess confessa di non poter più difendere, nell'era del video, il suo romanzo e il film che Kubrick ne ha tratto. "Arancia meccanica violenta? Si, sono colpevole. Il sangue scorre anche nella Bibbia e in Shakespeare. Ma la pubblicità in tv è peggio". Anche se Evelyn Waugh affermò che il cambiamento è una caratteristica dell'esistenza umana, le sue rigide opinioni non furono mai addolcite da questa massima. Ci sono alcune convinzioni alle quali ci aggrappiamo e a cui non permettiamo di abbandonarci: alla mia età, l'abbandono di una convinzione che faceva parte del mio essere deve essere considerato una sorta di indulgenza. Parlo della convinzione che le arti, incluse quelle minori, fossero inviolabili: che esse non potessero mai venire accusate di esercitare un'influenza morale o immorale e che esse fossero incorrotte, incapaci di corrompere e incorruttibili. Ho cambiato opinione in proposito abbastanza di recente. Questo atteggiamento protettivo nei confronti dell'arte in realtà non era altro che un mio desiderio di giustificare gli elementi corrotti esistenti nella più grande letteratura di tutti i tempi, quella del palcoscenico elisabettiano. Era un desiderio quello di non considerare Shakespeare uno scrittore violento. Una delle sue tragedie che probabilmente non vedremo mai più rappresentata sui palcoscenici e che, di certo, non vedremo mai adattata sul piccolo schermo, è Tito Andronico. Con i suoi stupri di gruppo, le mutilazioni, le scene di cannibalismo e con la carneficina finale, essa raggiunge un livello confacente solo al più depravato film porno violento dei giorni nostri: il fatto che essa sia il prodotto dello scrittore più stimato che sia mai vissuto non mitiga l'opportunismo dozzinale di questa opera. Anche in Re Lear, l'asportazione degli occhi del Conte Gloucester sembra una concessione gratuita alla depravazione degli spettatori ("Fuori, vile gelatina"). Nella Tragedia spagnola, Thomas Kyd a Hieronimo fece tagliare a colpi di morsi la propria lingua anche se questo era un gesto troppo inverosimile per essere preso sul serio. La Tragedia spagnola in ogni caso è la progenitrice, assieme al latino Seneca, della tradizione della Tragedia del Sangue, alla quale Re Lear e Amleto appartengono. Il più grande dramma di tutti i tempi fu immerso nel sangue e storpiato dalla violenza. Si può affermare l'impossibilita' dell'esistenza di un dramma che non contenga la violenza. Una rappresentazione teatrale, persino una commedia, si basa sul gioco degli antagonismi e quest'opposizione può essere omicida. L'antagonismo deve essere risolto attraverso il pianto o il riso: è solo questo che costituisce la trama. I romanzi melliflui di Jane Austen o di una Barbara Pym si basano su un'opposizione civile che può essere risolta attraverso la ragione; il concepimento di una trama nella quale gli antagonismi si accendono senza che un solo atto violento venga sferrato richiede un'immensa integrità artistica. Nella nostra era, almeno, la violenza fisica è monopolio dell'artista minore. Affronterò adesso un argomento per me delicato. Riconosco di essere stato responsabile, come chiunque altro, del culto della violenza che ha caratterizzato gli ultimi trent'anni. Nel 1962 pubblicai un romanzo intitolato Arancia meccanica in cui l'interesse era rivolto ai metodi di repressione della violenza giovanile piuttosto che alla glorificazione dell'atto aggressivo. Dieci anni dopo la pubblicazione - anni caratterizzati da critiche perplesse e da un esiguo numero di lettori - Stanley Kubrick adattò il libro al grande schermo piuttosto brillantemente. La sua versione differiva dall'originale in quanto il regista enfatizzava l'aspetto visivo mentre io ero stato particolarmente attento a convertire in sonorità - nello specifico, i suoni di una lingua inventata - i cliché della confusione e del delitto. Sia nel libro sia nel film il protagonista, attraverso il lavaggio del cervello, veniva trasformato da un individuo amante della violenza in un automa che vomita al solo comparire di un pensiero violento. La domanda era questa: è ammissibile sopprimere la libera volontà per assicurare la stabilità della società? Tra gli spettatori del film non furono in molti che si resero conto dell'interrogativo: la maggior parte era troppo eccitata dalla violenza per riflettere sulla filosofia del concetto. Come sappiamo, Kubrick e incidentalmente io stesso fummo accusati di aver raffazzonato qualcosa che assomiglia alla pornografia violenta; Kubrick ricevette dure minacce da alcuni nemici della violenza; in Gran Bretagna, diversamente dagli altri Paesi, il film venne ritirato e, non essendo stato possibile vederlo, Arancia meccanica si è guadagnato una reputazione ancor peggiore di quella che merita. Ma, soprattutto, un grande artista cinematografico ha ammesso dinnanzi al mondo che l'arte può essere dannosa. Se Arancia meccanica può corrompere, perché non lo possono fare la Bibbia e Shakespeare? E, invero, perché no? Ricordo di essere tornato a Londra da New York con un paio di premi ricevuti dal New York Critic's Circle e di essere stato inviato a difendere il film a un programma radiofonico condotto da Sir James Savile, ai quei tempi un ufficiale dell'Ordine dell'Impero Britannico. Notate che l'unico tipo di approccio al film fu di attacco o di difesa: un sereno giudizio estetico allora sembrava essere fuori luogo. La mia linea di difesa fu che l'azione era anteriore all'arte, che l'aggressività era insita nell'uomo e che, quindi, non poteva essere insegnata da un libro, da un film o da un dramma. Se si desiderava credere che un libro potesse istigare alla violenza, allora la Bibbia, considerata l'espressione della Parola di Dio, poteva costituire il primo esempio. Dagli USA giungeva la notizia secondo la quale gruppi di quattro giovani vestiti bizzarramente come i protagonisti di Arancia meccanica avevano stuprato delle suore a Poughkeepsie mentre a Indianapolis avevano picchiato degli anziani. Continuai a negare la possibilità che il film avesse potuto istigare i giovani alla violenza, ma non ero del tutto sincero: era Shakespeare che stavo difendendo. Dal film Arancia meccanica la gioventù non apprese l'atto aggressivo: essa era già aggressiva. Ciò che imparò fu uno stile di aggressione, un modo nuovo di abbigliarsi per far violenza, una salsa piccante per condire un'insalata fatta di calci, percosse e colpi di lama di rasoio. Un prodotto artistico ha una qualità autorevole, uno slancio giustificativo che garantisce virtù all'imitazione. Noi sappiamo, anche se non lo vorremmo, che l'offerta di Abramo di sacrificare il proprio figlio al Signore è stata adottata per giustificare l'infanticidio e che l'atto del pluriomicida Haigh di bere il sangue delle proprie vittime aveva le sue origini in una devozione maniacale nel sacramento dell'Eucaristia. Forse una persona può vedere Amleto e poi fare cosa ha rimandato di fare: uccidere, cioè, il proprio zio. Non sappiamo se Il silenzio degli innocenti abbia promosso il cannibalismo o la folle carneficina del suo protagonista. Ci inchiniamo adesso, in ogni caso, dinnanzi a una tesi che pensavo non avrei mai accettato, quella della pericolosità dell'arte. Ai tempi dei Moors Murders (Assassini delle paludi), quando l'omicida Brady ammise di poter essere stato influenzato da Justine del Marchese de Sade, l'ultima Lady Snow disse che se il rogo di tutti i libri esistenti al mondo fosse stato necessario per risparmiare la morte di un bambino, noi non avremmo dovuto esitare ad incendiarli (naturalmente, le pellicole cinematografiche produrrebbero una fiamma migliore). Il discorso sta andando troppo oltre: ma io sto iniziando ad accettare il fatto che, quale romanziere, appartengo al rango dei pericolosi. Ero solito considerarmi un innocuo arrivista della penna. Composta prevalentemente da film narrativi e dal libero sfogo dell'impressionante, l'interrogativo su fino a che punto la televisione possa essere un agente di corruzione è divenuto pressante. Con la sua trasformazione in una sorta di museo dei film e in bacheca per telefilm prodotti con pochi soldi, il mezzo di comunicazione televisivo ha già tradito parte della sua funzione iniziale. Negli Anni 50 la BBC trasmetteva drammi, non lungometraggi. Gli spettacoli principali della serata erano Checov, Rattigan o persino Shakespeare, recitati dal vivo a intervalli. Il teatro veniva portato nei salotti e il teatro non ha mai permesso gli eccessi del cinema. I polizieschi americani che adesso affollano le ore oziose prima di andare a letto devono essere violenti ma la violenza del cattivo è bilanciata da quella del buono. Eppure dubito che la violenza di tali sceneggiati abbia un impatto reale: non ci sono esseri umani, ma solo assassini e poliziotti. Di principio - ed è un principio che sono stato disposto ad accettare oltrepassati i cinquanta - sono favorevole alla censura ai danni del piccolo schermo, anche se ritengo che il pubblico si sia già sensibilizzato nei confronti della violenza in tv, una sensibilità che nella parte finale del film è pronta a dire: "Ne ho abbastanza, basta". E improbabile che alcuni degli eccessi cinematografici vengano riprodotti sul piccolo schermo. Devo confessare che negli ultimi vent'anni ho guardato la televisione in Francia e in Svizzera, con soggiorni occasionali a New York. La televisione, come è risaputo, è migliore in Gran Bretagna, ma non esiste una grande differenza qualitativa se uno attraversa l'Atlantico o le Alpi. La televisione mondiale è omogenea, impregnata cioè di innocui sceneggiati americani. Come gli alimenti che mangiamo a colazione, essa è melliflua e il suo aspetto negativo non è nella somministrazione di acute stoccate di violenza o di stimoli sessuali quanto piuttosto nel fatto che la televisione è un mezzo di espressione che può essere o non essere volgare. Quale semplice visitatore della Gran Bretagna sono spaventato dalla violenza della pubblicità che paga ciò che viene trasmesso prima o dopo, dall'avvilimento del linguaggio, dallo humour così scadente da far arrossire. Si rimpiangono i vecchi tempi, l'unico canale della BBC , le rappresentazioni tranquille, la ruota della fortuna, il mulo Muffin. Adesso, invece, il desiderio di foraggiare cromaticamente ogni minuto della trasmissione porta a fare uso della violenza a basso costo. Non penso però ci sia nulla da temere. Il pericolo della tv, soprattutto se i suoi standard vengono stabiliti virtualmente dagli interessi commerciali, è che essa sia agente del degrado sociale. Questo è ancor più spaventoso dell'eventualità' che Arancia meccanica raggiunga lo schermo. |
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Il giorno fissato per la visita a casa sua, presi dallo scaffale un paio di miei libri da portargli. Non si trattava di un gesto di cortesia, ma del desiderio di ricordargli che Naboth aveva la sua piccola vigna. Il mio nuovo romanzo si chiamava A Double Life. Forse il titolo poteva funzionare da avvertimento: non ero soltanto un lavoratore salariato. Kubrick mandò uno dei tipici taxi neri da Saint Albans. Una volta a Saint Albans, ci lasciammo sulla destra la cattedrale color miele, che sorgeva in una banale zona suburbana, come un bel pensiero in un paragrafo grossolano. Girammo intorno alla cittadina, prendemmo una strada di campagna e, dopo molte curve, svoltammo a sinistra e oltrepassammo un cancello verde di metallo lavorato. Sembrava l'arrivo di Fridolin alla casa di campagna in cui si stava per svolgere l'orgia. Ci lasciammo alle spalle una casetta in stile gotico vittoriano, e, lungo una strada privata ai cui margini correva una staccionata bianca un po' arrugginita oltre la quale si estendevano prati incolti, costeggiammo un gruppetto di case con il tetto spiovente, non propriamente ville. Il paesaggio striato dalla madida luce autunnale appariva in una veste di malinconica solennità. Svoltammo a sinistra, oltrepassammo i cartelli che annunciavano «Proprietà privata» e le guardie addormentate e giungemmo a un altro cancello, questa volta chiuso. Il tassista scese dall'auto per schiacciare i pulsanti necessari. Cinquanta metri dopo dovette ripetere l'operazione. La casa era enorme, ma non sfarzosa. Si trattava di un edificio vittoriano basso e molto esteso, con una facciata a colonne. C'era un ampio cortile ghiaioso e un'atmosfera di acre desolazione. Certo il posto era estremamente ben protetto, ma che ricchezze c'erano da proteggere? Più che una villa sembrava un gigantesco cottage. Separata dalla costruzione principale c'era una grande scuderia di mattoni che doveva essere stata riconvertita in una palazzina di uffici. Parcheggiate sulla ghiaia c'erano numerose automobili non lucidate. Il taxi si fermò e io scesi e mi avvicinai alla semplice porta di ingresso blu, sormontata da un frontone. Kubrick aprì la porta. Indossava una tuta da lavoro blu con bottoni neri. Avrebbe potuto essere un impiegato di basso rango delle ferrovie francesi. Era un uomo piuttosto piccolo e corpulento (non portava cintura), con una barba che gli camuffava i lineamenti più che sottolinearli. Gli occhi neri erano ingigantiti dai grandi occhiali. Quando ci stringemmo la mano ebbi l'impressione che fosse timido. «Sei arrivato». Parlava come se fosse poco uso alla conversazione e a disagio in compagnia di un ospite, anche se era stato lui a invitarlo. Era come se avesse subito un trauma che gli aveva quasi fatto perdere la fiducia in se stesso, anche se non in quello che faceva. Sembrava allo stesso tempo vanitoso e schivo. Mi condusse nei meandri di quell'enorme casa simile a una fabbrica abbandonata o a una scuola privata finita in bancarotta, un luogo in cui un tempo la gente si affollava ma che ora era stato evacuato. Sembrava un magazzino, pieno di cose in disordine, perfette cianfrusaglie che non avrebbero mai potuto essere rimesse in uso. Interno. Laboratorio. Casa di Kubrick. Giorno. Ha un tetto di legno e un sacco di tavoli pieni di altre cianfrusaglie. In una pila di libri aperti c'è anche (ma non è messo in evidenza) un libro di dipinti di Christiane rilegato in bianco. I suoi paesaggi colorati e le sue nature morte con i fiori rossi e gialli ricoprono gran parte delle pareti. I dipinti non hanno ombre. Le grandi finestre danno su un prato cinto da muri, ampio ed esteso ma irregolare. Dannazione, è un pavone quello laggiù? Un cane nero è addormentato in una cuccia accanto alla porta che dà sul prato. Lungo il basso orizzonte non sono visibili altre case. Una siepe di tasso chiude la visuale sulla destra. Ci sedemmo a parlare su due sedie rigide. Sapevo che Kubrick era stato un abilissimo giocatore di scacchi. Era come se avessi ricevuto una telefonata da un Kasparov del cinema e ora tra noi ci fosse una scacchiera. Era venuto il momento di mostrare quello che valevo, se intendevo condurre una buona partita. Ma se anche avessi giocato bene, probabilmente lui non aspettava altro che di estenuarmi e umiliarmi. In una partita d'alto livello, entrambi i giocatori devono dare il massimo, ma uno dei due deve essere migliore, e sarà lui a vincere (gli scacchi sono un gioco di implacabile sadismo e violenza pianificata). In quanto scrittore ero sicuro che mi sarebbero stati rifilati i pezzi neri; tutte le mie speranze stavano nel riuscire a reagire efficacemente una volta attaccato. Per quel che riguarda l'ottenere il lavoro non credevo ci fosse nulla da temere (le cifre erano state definite e i contratti erano quasi pronti), ma non avevo intenzione di cominciare il nostro match con una mossa da principiante.
Ho avuto altre tre lunghe ed estenuanti conversazioni telefoniche con Kubrick. All'inizio mi rivolgevo a lui con deferenza e con voce fievole, da buon mercenario. Poi ho cominciato a lasciarmi andare. Dal punto di vista cinematografico non c'è dubbio che sia un maestro. Però intellettualmente non è certo oltre la mia portata; non sono nemmeno convinto che sia chissà quanto intelligente. Perché è così guardingo? Ridere significa perdere il controllo; lui preferisce non andare oltre un leggero borbottio. Ascolta le mie tiritere con una specie di reattività taciturna. Si aspetta che io risponda prontamente ai suoi stimoli, ma lui se la prende comoda. Che abbia cominciato a rilassarsi un po' lo si nota da come si concede qualche aneddoto - specialmente su Kirk Douglas - per alleggerire la conversazione. Nei confronti di Kirk si mostra al contempo sprezzante e invidioso, in particolare delle sue prodezze e dei suoi appetiti sessuali. Mi ha raccontato che, sul set di Spartacus, Kirk - mentre aspettava il suo turno di andare in scena - passava in rassegna le donne in visita agli studi. Quando ne vedeva una attraente, mandava O., il suo assistente e mezzano, a parlarle. Chi avrebbe potuto rifiutare l'opportunità di incontrare a quattr' occhi la star? E quando all'improvviso (come si premurava accadesse) veniva chiamato al trucco, Kirk si congedava dicendo che il dovere lo attendeva, faceva per andarsene, e dopo un passo si voltava e invitava la ragazza a prendere un tè con lui nella sua roulotte per aiutarlo ad affrontare la noia del piumino di cipria. Chi può dire quante di loro abbia preso al posto del tè? Forse Kubrick ha fatto di Kirk l'emblema del produttore insopportabile non solo perché era stato un tiranno, ma anche perché, a volte, aveva avuto ragione. Secondo alcuni biografi di Kubrick ci fu un momento, prima dell'inizio delle riprese di Orizzonti di gloria, in cui Douglas si dimostrò meno disposto del suo giovane regista (Kubrick allora non aveva ancora trent 'anni) a scendere a compromessi. Quando ricevette una delle ultime stesure della sceneggiatura, Douglas fu allarmato, e offeso, dallo scoprire che Kubrick aveva deciso che i tre soldati scelti a caso per essere condannati a morte con la falsa accusa di codardia venissero graziati all'ultimo momento. Si dice che sia stato Kirk a opporsi a questa vile concessione alle richieste del botteghino. Lo spietato finale della prima versione fu reinserito e, grazie (probabilmente) a Kirk, Orizzonti di gloria divenne l'intransigente capolavoro che tutti possiamo ammirare. Se Kubrick si era tirato indietro di fronte alla versione tragica e terribile che ora sembra portare la sua impronta, sospetto che sia stato non tanto per irresolutezza quanto per paura di un fallimento commerciale. La sola cosa che tutti i suoi film hanno in comune è l'attrazione per la morte violenta. Sia stato o meno Kirk a convincere Stanley riguardo al finale, non c'è dubbio che è merito del solo Kubrick la creazione dell'atmosfera claustrofobica della battaglia, nonché della rivoltante solennità del castello in cui gli spietati generali (Adolphe Menjou e George Macready) pianificano le proprie promozioni tra l'argenteria e le porcellane di Sèvres. Prima di Orizzonti di gloria nessuno nel cinema aveva mai ottenuto una fotografia che facesse percepire l'aria. Gli atomi di pulviscolo che nel castello volteggiano nei raggi di sole danno allo schermo una profondità che nemmeno Welles aveva raggiunto. Quell'aria così pulita che si respira al quartier generale è troppo fina per essere condivisa con i militari di rango inferiore, come se l’ossigeno puro fosse stato imbottigliato nel castello a uso e consumo dei pezzi grossi dell'esercito. Se anche il montaggio di Orizzonti di gloria deve qualcosa alla Corazzata Potemkin, il film di Kubrick, a differenza di quello di Ejzenstein, non ha alcun messaggio per l'umanità. Non promuove il rovesciamento della classe dirigente, e non propugna nemmeno la fratellanza di tutti gli uomini nello stile superficiale della Grande illusione di Jean Renoir.
Forse parte del mio ascendente su Stanley (posto che l'avessi) dipendeva dal fatto che lui conosceva, e probabilmente sopravvalutava, i miei titoli accademici. Durante una delle nostre conversazioni di riscaldamento mi disse di non essere mai andato al college. Tuttavia, nel periodo in cui lavorava come fotografo alle prime armi per la rivista Look, aveva avuto il tempo di assistere alle lezioni tenute alla Columbia University da Moses Hadas, Gilbert Highet, Lionel Trilling e Mark van Doren, il cui figlio Charles aveva accettato di partecipare a un quiz televisivo truccato (e nel farlo aveva agito da farabutto ma anche da pioniere, dato che ormai tutto quel genere di cose sono truccate, così come i premi e - se hai gli amici giusti - le recensioni). Stanley aveva premuto il naso contro le vetrine dell'accademia, come Fridolin/Bill contro quelle della sessualità liberata. L'interesse di Kubrick per il mondo antico era un tributo agli insegnanti che non aveva mai avuto. In preda a un'incessante curiosità, commovente ma anche estenuante, aveva un amore da outsider per le informazioni riservate. Approfittava dei diritti conferitigli dalla fama per telefonare a chiunque e ovunque al fine di ottenere delle risposte. Gli piacevano le persone brillanti e aveva un grande rispetto (da ebreo?) per gli studiosi. Tuttavia i grandi esperti a cui si affidava talvolta lo esasperavano: Arthur C. Clarke, ad esempio, era divenuto troppo insistente nel dispensare la propria intelligenza. KUBRICK «Continua a tempestarmi di fax. Quasi ogni giorno ricevo una montagna di cazzate da lui. Hai visto quel film, 2010. L'anno del contatto?». RAPHAEL «Sicuro». KUBRICK «Che impressione ti ha fatto?». RAPHAEL «Non sono rimasto fino alla fine. Non... era diretto da Stanley Kubrick». KUBRICK «Sai qual è il problema? Hanno spiegato tutto. Di ogni cosa ti dicono cosa significa. Lo ammazza. Se dici cosa significa, non significa più niente». RAPHAEL «Di sicuro tu non l'hai fatto». KUBRICK «Cosa ne pensi del De bello gallico di Cesare? L'hai letto?». RAPHAEL «Stanley, l'ho letto in latino a nove anni. Esagero. Ne avevo dieci. Forse undici quando sono arrivato alla fine». KUBRICK «Ok, cosa ne pensi?». RAPHAEL «Un ottimo libro. Una specie di memorie del generale Montgomery ante litteram». KUBRICK «Ci vedi un film?». RAPHAEL «Dal De bello gallico? Eisenstein voleva trarre un film dal Capitale. Piuttosto costoso. Specialmente costruire quel ponte sul Reno. E se cerchi di seguire le istruzioni di Cesare può esserci qualche problema di interpretazione». KUBRICK «Ricordi quella scena tra Cesare e il tipo tedesco... dopo la resa finale». RAPHAEL «Vercingetorige?». KUBRICK «Mi pare. Te la ricordi?». RAPHAEL «Quando in pratica chiede a Cesare perché è venuto a distruggere le loro vite?» KUBRICK «Bellissima scena. E con uno splendido dialogo. Non ci sarebbe da cambiare una virgola. Con una scena così basterebbe portare avanti il film fino a quel punto e poi... arrivare alla conclusione. Un personaggio piuttosto straordinario, Giulio, non credi?». RAPHAEL «Quel suo modo di raccontare semplice e chiaro, da militare, che nasconde moventi subdoli ed egoistici... Era un bastardo, il vecchio G.C.». KUBRICK «Non lo siamo tutti? Era peggio degli altri?». RAPHAEL «Meglio e peggio. Come capita ai geni, forse». KUBRICK «Credi davvero?». RAPHAEL «Non necessariamente. Cesare non aveva nessun motivo di invadere la Gallia, eccetto che aveva un sacco di debiti e quello era l'unico modo per saldarli. I romani non volevano la Gallia, ma lui aveva bisogno di gettare le fondamenta del suo potere, e la guerra glielo permise. Credo che sia andato troppo oltre, o non abbastanza. Se l'avesse conquistata, la Germania avrebbe potuto essere parte della civilizzazione dell'Occidente».
«Freddie, puoi parlare?». RAPHAEL «Certo». KUBRICK «Buon anno». RAPHAEL «Anche a te». KUBRICK «Allora... come va?». RAPHAEL «Non male». KUBRICK «Hai già visto l'ultimo film di Woody Allen?». RAPHAEL «Mariti e mogli? Sì, mi è piaciuto. A parte l'inizio bilioso. E a te?». KUBRICK «Un ottimo film. Hai notato qualcosa?». RAPHAEL «Cosa avrei dovuto notare?». KUBRICK «La misura dell'appartamento. Guy dovrebbe essere un redattore o qualcosa del genere e vive in un appartamento enorme. Hai visto com'era grande l'ingresso? Va bene per muovere la macchina da presa, però è un po' costoso per uno che lavora nell'editoria. Cerchiamo di non fare lo stesso errore. Hai idea di quanto guadagni oggi a New York un medico come Bill?». RAPHAEL «No, non ho idea. Un centocinquantamila dollari all'anno?». KUBRICK «L'importante è che tu non faccia l'appartamento troppo grande. Non c'è nessuno che viva con loro. Magari una domestica, ma che non sia ispano-americana». KUBRICK «Io e Terry (n.d.r. Terry Southern, sceneggiatore) avevamo un ufficio a Pinewood dove lavoravamo alla sceneggiatura del Dottor Stranamore. Nello stesso corridoio c'era il camerino di Romy Schneider, che stava girando lì non so che film. Ci seccava che non ci salutasse mai, passava sempre davanti alla nostra porta senza degnarci di uno sguardo. Sai com'era Terry, fumava un sacco di erba, e così decise di... fare qualcosa per smontare l'atteggiamento supponente di Romy. E gli venne in mente di scriverle una lettera d'amore. Scrisse la lettera, che diceva: "Se vuoi farti una canna, rivolgiti alla stanza 221", cioè la stanza in cui lavoravamo noi, e la infilò sotto la porta del suo camerino». RAPHAEL «E lei si è fatta viva?». KUBRICK «Non che io sappia». RAPHAEL «Stranamore è il tuo film migliore». KUBRICK «Un sacco di gente l'ha odiato». RAPHAEL «Deve averti fatto piacere». KUBRICK «Perché mai? Mi considerarono un traditore. Arrivarono quasi al punto di non farlo uscire nei cinema». RAPHAEL «Però sei riuscito a dire quello che volevi». KUBRICK «Un sacco di gente rifiutò di proiettarlo. Eravamo partiti con l'idea di fare un film serio, ma a un certo punto ci accorgemmo che era impossibile. Io e Terry... ci guardammo e ci dicemmo che non si poteva prendere seriamente quel genere di cose. Però erano serie eccome». RAPHAEL «Sellers era incredibile. Come hai fatto a fargli fare tutte quelle cose? Erano nella sceneggiatura?». KUBRICK «Le faceva e basta. Sai come facevo? Lui era bravissimo, ma non riusciva a ripetere le scene. Le faceva una o due volte e basta. Allora io preparavo sei macchine da presa, e la mattina Peter arrivava, e quand'era pronto gli lasciavo fare quello che voleva». RAPHAEL «Lo conobbi quando lavorava ancora solo alla radio. Un produttore della Bbc mi disse: "È una vera fortuna che esista un mezzo di comunicazione in cui un attore può recitare senza essere visto, perché Peter è talmente brutto che nessuno lo farebbe recitare di fronte al pubblico"». KUBRICK «Lo lasciavo continuare finché diceva basta e poi giravamo le altre parti della scena». RAPHAEL «Dio mio, che bello quel momento in cui dice: "Mein Führer, cammino!". L'hai scritto tu?». KUBRICK «Hai visto Pulp Fiction?». RAPHAEL «Sì, mi è piaciuto molto. E a te?». KUBRICK «Dovremo tenerne conto, credo». RAPHAEL «In che senso? Dobbiamo far dire un sacco di volte cazzo a tutti?». KUBRICK «Tenere conto del modo in cui si sviluppa la narrazione». RAPHAEL «Mi è piaciuto, però secondo me la nostra storia non ha bisogno di una struttura circolare come quella». KUBRICK «Mi raccomando, non perdere il ritmo».
KUBRICK «Ho avuto le nuove pagine». RAPHAEL «Dimmi cosa ne pensi?». KUBRICK «E’ naturale, e inevitabile, che man mano che andiamo avanti... credo che ci saranno sempre più cose da... discutere». RAPHAEL «Capisco». KUBRICK «Il fatto è che la scena con la prostituta (in Eyes Wide Shut, ndr) non mi piace. Insomma, mi sembra Barbra Streisand, capisci cosa intendo? E poi quel dialogo così serrato, così incalzante. Non è quello che voglio. Non potremmo semplicemente seguire Arthur (Schnitzler, ndr)?» . RAPHAEL «Parliamo di New York oggi. Non mi risulta che le strade siano piene di passeggiatrici dal cuore tenero». KUBRICK «Non voglio quel genere di dialogo newyorkese serrato e incalzante. Voglio che tu mi segua le indicazioni di Arthur. E un' altra cosa... sai quella scena in cui Bill e quell'altro tipo si stanno allontanando per strada. Dici che stanno parlando. Ma di cosa parlano?». RAPHAEL «E’ la fine della scena, loro sono in campo lungo. Voglio solo dire che... sai, si comportano come due amici qualsiasi...». KUBRICK «E quindi di cosa parlano?». RAPHAEL «Non lo so. Cosa preferisci? Sono due medici, giusto? E di cosa parlano i medici? Di golf, dell'andamento della borsa, delle tette dell'infermiera del turno di notte, cose così... di vacanze...». KUBRICK «Sono due gentili, vero?». RAPHAEL «Così hai deciso tu». KUBRICK «Noi siamo due ebrei, cosa ne possiamo sapere di come parlano quelli là quando sono tra loro?». RAPHAEL «Ma dài, Stanley, "quelli là"! Li hai sentiti parlare. Parlano delle stesse cose di cui parliamo noi, cosa credi? Ti sarà capitato di sentire delle conversazioni, al ristorante, al cinema. A proposito, ho...». KUBRICK «Può darsi, però c'è un fatto: loro tengono sempre presente che tu sei lì ad ascoltarli». RAPHAEL «Stanley, la sai una cosa? Sei talmente paranoico che in confronto mi sento la persona più normale del mondo. Non dici sul serio, vero?». KUBRICK «E allora l'Olocausto? Cosa ne pensi di quello?». RAPHAEL «Cosa ne penso ? Penso che forse ora non abbiamo il tempo di...». KUBRICK «Come soggetto per un film, è fattibile?». RAPHAEL «Ne hanno già fatti di film sull'Olocausto». KUBRICK «Ah sì? Non lo sapevo». RAPHAEL «Hai mai visto quel film di Munk incompiuto, La passeggera?». KUBRICK «Non era di Antonioni? Ci recitava Jack». RAPHAEL «Quello di Munk è più vecchio. Mi sorprende che tu non lo conosca. Ha un sacco di inquadrature fisse. Non perché le avesse volute Munk, ma perché lui è morto prima di finirlo. Aveva preparato uno story-board con fotografie delle scene che aveva in mente. Quando hanno montato il materiale girato, hanno inserito le fotografie nei punti in cui sarebbero dovute andare le scene corrispondenti, anche se nessuno sapeva con esattezza cosa significassero o cosa avrebbe dovuto esserci intorno. Così la versione finale del film è fatta di scene filmate a cui si alternano gruppi di due o tre fotografie. Il risultato è molto enigmatico. Per quanto mi ricordo è la storia di una donna che, molti anni dopo la guerra, nel corso di una crociera riconosce in un uomo una delle sue sadiche guardie del campo di concentramento in cui era stata rinchiusa. Alcune scene sono splendide. Una straordinaria economia di mezzi. Per esempio ce n'è una in cui un uomo è alla guida di un carro tirato da un cavallo che sta uscendo da un cortile. Le fiancate del carro sono fatte di assi di legno e sono altissime. Impossibile vedere cosa c'è dentro, ma viene un sospetto. E a un certo punto il carrettiere prende un lungo bastone con la punta a Y e, mentre la macchina da presa accompagna il suo movimento, lo usa per tirare indietro un braccio livido che sporge oltre la fiancata. E in quel momento ci si rende conto che il carico trasportato da quell'uomo consiste in un ammasso di cadaveri. E poi...». KUBRICK «Ok, e quali altri film hanno fatto?». RAPHAEL «Notte e nebbia. Che era una specie di documentario ma...». KUBRICK «E poi?». RAPHAEL (Sapendo benissimo che è a questo punto che vuole farlo arrivare) «Beh, c'è Schindler's List». KUBRICK «E ti sembra un film sull'Olocausto?». RAPHAEL «No? E su cos'è?». KUBRICK «E’ un film sul successo. L'Olocausto riguarda sei milioni di persone che vengono ammazzate. Schindler's List parla di seicento persone che non vengono ammazzate. Altri?».
Il mito di Kubrick ha diffuso l'idea che lui sia stato in qualche modo immune dalla gavetta attraverso cui passano tutti. Ma in realtà anche lui ha dovuto affrontare rifiuti e umiliazioni. Quando lavorava alla MGM come sceneggiatore, una situazione infelice, dato che non è mai stato e nemmeno ha mai preteso di essere uno scrittore, cercava di portare avanti dei soggetti originali da poter poi dirigere. Una volta ne mandò uno a Gregory Peck, che allora era una grande star. «Sai cosa accadde? Me lo rispedì con un biglietto che diceva che non avrei dovuto scrivere cose di quel genere, e che non avrei dovuto mandargliele. Come se l'avessi insultato». Non ho mai chiesto a Stanley quali sceneggiature abbia scritto per la MGM. E’ improbabile che ne siano mai stati tratti dei film, e anche in quel caso non se ne assumerebbe la paternità. Nella Hollywood degli anni Cinquanta Kubrick si limitava a tenere duro insieme ad altre giovani speranze del cinema. In quel periodo, Stanley scoprì un romanzo di Lionel White, Clean Break, da cui trasse Rapina a mano armata, che fu il suo primo film ad attrarre l'attenzione della critica e della gente di cinema. Benché avesse tutte le caratteristiche del b-movie a basso budget, Rapina a mano armata era innovativo sia per la struttura temporale sia per la moltiplicazione dei punti di vista. Come sarebbe stato tipico di Kubrick, era feroce e nello stesso tempo lieve: le maschere da clown indossate dai cattivi nel corso della rapina sarebbero divenute un cliché soltanto in seguito. Anche la banda dei Drughi in Arancia meccanica ha quella stessa brutale leggerezza. Il colpo di scena più crudele di Rapina a mano armata era l'uccisione del cavallo, un modo semplice e spietato di stupire lo spettatore. Solo quando lavorai con Stanley scoprii la particolare tenerezza che nutriva verso gli animali. Anche ai dirigenti della Warner Brothers vengono le lacrime agli occhi quando descrivono come Kubrick fosse affezionato ai suoi germani reali. In Rapina a mano armata l'arditezza delle ambientazioni e la dimessa nobiltà di Sterling Hayden, nel momento in cui le sue ultime speranze di ottenere il bottino della rapina se ne volano letteralmente via, trascendevano il genere del b-movie (in seguito idolatrato dai Cahiers du cinéma) a cui pure apparteneva quella pellicola. Il primo film inconfondibilmente kubrickiano di Kubrick fece sì che al giovane regista venissero rivolte numerose offerte. Kubrick ricordava con precisione e con un certo rancore vendicativo le offese ricevute, molto più che i complimenti. Mi raccontò che D.P., quando poteva permetterselo, aveva l'abitudine di chiamare una prostituta a casa intorno alle sei del pomeriggio per fare sesso con lei prima di andare a un appuntamento, caso mai quella notte non fosse riuscito a farsi un'altra scopata. Al pari del protagonista di Schnitzler, Kubrick era affascinato e insieme spaventato dalle cose a cui assisteva ma che non osava fare in prima persona. Il voyeur pensa di mantenersi puro limitandosi a guardare quello che altri sono capaci di fare. Stanley mi fece spedire da Tony Frewin una serie di fotografie erotiche di Helmut Newton, allo scopo, immagino, di stimolare la mia immaginazione. Era strano (ed eccitante) come molte di esse mostrassero donne che accarezzavano altre donne. Eppure quando, in una delle scene scritte per il film, feci chiedere da Alice a Bill se avesse mai avuto la fantasia che lei fosse un ragazzo, Stanley rifiutò l'idea dello scambio di sessi con una sorta di disgusto. Le immagini di Newton si dividevano tra fantasticherie sessuali ambientate in luoghi estremamente lussuosi e fotografie di donne in atteggiamenti puttaneschi scattate in uno stile da documentario sui bassifondi. Talvolta la volontà di essere perverso a tutti i costi sfiorava il ridicolo: una brunetta discinta, che rivolgeva un sorriso seduttivo al fotografo alzandosi da un letto sgualcito, si appoggiava a un bastone nero, portava un collare ortopedico e aveva una gamba ingessata. Newton pareva ossessionato (o sperava che il suo pubblico lo fosse) dal voyeurismo maschile: le sue composizioni fotografiche spesso mostravano una o più donne nude osservate da maschi in abito da sera. La spudoratezza delle donne contrastava con la furtiva dignità degli uomini che le guardavano. Le donne spesso indossavano solo un paio di tacchi a spillo: non avevano niente da nascondere, e non lo nascondevano. Una delle fotografie più bizzarre mostrava una donna nuda, snella e dal seno prosperoso, chinata ad applicare il rossetto sulle labbra di un uomo seduto ed elegantemente abbigliato (ma con la cravatta allentata). L'uomo guardava da un'altra parte, ignorando i seni conici che aveva di fronte. Avrebbe potuto essere dal dentista. Oltre alle fotografie, ricevetti un fascicolo di riproduzioni di disegni di Egon Schiele e Gustav Klimt che conoscevo già, come precisai a Stanley. Apprezzai quell'inondazione di abbondanza erotica, ma difficilmente avrebbe potuto suggerirmi più di quello che poteva emergere dall'immaginazione di Schnitzler e dalla mia (e da quella di S.K.). Kubrick voleva davvero che lo stile del suo film scimmiottasse quello di Newton?
RAPHAEL «Ti piace Sergio Leone»?. KUBRICK «E a te?». RAPHAEL «A me sì, certe cose. O forse è Morricone a piacermi? Entrambi, credo». KUBRICK «Ho passato due anni a cercare di fare un western, con Marlon». RAPHAEL «Quale?». KUBRICK «I due volti della vendetta. Due anni ci ho perso». RAPHAEL «E poi cosa è successo?». KUBRICK «Marlon avrebbe dovuto recitarci e produrlo». RAPHAEL «Non andavate d'accordo?». KUBRICK «Mi sembra di sì». RAPHAEL «E allora qual era il problema? Lui non ti piaceva?». KUBRICK «Come attore è un grande. Ma faceva anche il produttore. Non riusciva a prendere determinate decisioni e non voleva lasciarle prendere a nessun altro. Non riuscimmo mai a mettere a punto la storia. Non riuscimmo mai a mettere a punto niente. Si cominciava e... non si sapeva quando ci saremmo fermati. Dopo due anni, di punto in bianco Marlon decise di prendere in mano la situazione. Ci riunimmo tutti intorno a un tavolo. Brando aveva comprato un cronometro, lo mise sul tavolo e disse che era giunto il momento di prendere delle decisioni, e che avrebbe concesso a ciascuno di noi tre minuti per dire la nostra sui problemi del film, così ci saremmo ritrovati con un bilancio in base al quale decidere cosa fare. Cominciò il giro. Io ero seduto al suo fianco, e quindi avrei dovuto parlare per ultimo. Cominciò l'operatore, poi il responsabile delle location, poi l'addetto al casting, tutti parlavano per tre minuti e poi, avessero finito o meno, il cronometro suonava e loro passavano parola. Così si fece tutto il giro fino ad arrivare a me, e Marlon mi guardò e mi chiese: "Stanley, quali sono i tuoi problemi?". E schiacciò il pulsante del cronometro. "Hai tre minuti". "Dài, Marlon - dissi io - è stupido condurre la cosa in questo modo". E lui: "Adesso hai due minuti e cinquanta secondi". Allora iniziai a dire cosa pensavo a partire dalle prime pagine della sceneggiatura, ed ero arrivato più o meno a pagina 5 quando il tempo finì. "Ok, - disse Marlon, - hai avuto i tuoi tre minuti". E allora io dissi a lui: "Marlon, perché non vai a farti fottere?"». RAPHAEL «Hai fatto bene. E lui cos'ha risposto?». KUBRICK «Non ha risposto. Si è alzato - eravamo in una di quelle specie di bungalow - ed è andato a chiudersi in camera da letto sbattendo la porta. "Cosa crede di fare? - mi sono detto io. - Se n'è andato ma prima o poi deve tornare". Qualcuno disse che non avrei dovuto parlargli in quel modo, ma come fai a non perdere la calma quando la gente si comporta così? Tanto sarebbe tornato». RAPHAEL «E tornò?». KUBRICK «No. Non uscì più. Restammo un bel po' seduti lì e poi ce ne andammo a casa. Mi aspettavo che mi avrebbe chiamato, ma invece niente. La verità è che era già stato tutto programmato. Il film voleva dirigerlo lui, come poi fece. Voleva che mi togliessi dai piedi e non sapeva come altro fare. Marlon era così».
RAPHAEL «Ho parlato con un tipo che dice di ricordarsi di te quando giocavi a scacchi a New York». KUBRICK «Davvero?». RAPHAEL «Mi ha raccontato di averti visto giocare con una ragazzina di quattro o cinque anni in un qualche posto all'aperto nel Village». KUBRICK «Mi sembra strano». RAPHAEL «Giura che eri tu, e che lei aveva imparato una dozzina di mosse di una qualche strana apertura e con quelle era riuscita a metterti in difficoltà». KUBRICK «Non ricordo di aver giocato all'aperto a New York». RAPHAEL «Giochi ancora?». KUBRICK «Ho smesso. Qualche volta faccio una partita al computer, ma... non gioco più con... con altri». RAPHAEL «Però una volta giocavi?». KUBRICK «Eccome. A un certo punto giocavo a scacchi molto seriamente». RAPHAEL «Seriamente come?». KUBRICK «Una volta ho giocato con un principe arabo. Quella sì che è stata una cosa seria. Aveva nella cintura una pistola con l'impugnatura d'avorio. Aveva saputo che giocavo a scacchi e così mi aveva invitato a fare una partita». RAPHAEL «E cosa è successo? Hai accettato?». KUBRICK «Ero a casa sua, c'era un sacco di gente intorno, era un po' difficile rifiutare. Sì, ho accettato. Diceva di essere molto bravo. Mi portò nella stanza accanto, dove aveva degli splendidi scacchi». RAPHAEL «I bravi giocatori non amano giocare con pezzi troppo belli, vero?». KUBRICK «Credo di sì. Ma a lui piaceva giocare con questi splendidi scacchi. Chiuse la porta e facemmo una partita. Lui non era male, ma non era neanche particolarmente bravo». RAPHAEL «Hai vinto tu?». KUBRICK «Ho vinto in pochissimo tempo». RAPHAEL «E cosa è successo?». KUBRICK «Ha voluto giocare di nuovo. Cosa potevo fare? Ho giocato di nuovo. Immaginai che non volesse rientrare troppo presto nell'altra stanza». RAPHAEL «E la seconda volta come andò?». KUBRICK «Feci un errore...». RAPHAEL «E lo lasciasti vincere?». KUBRICK «Forse. Ma... andò così». RAPHAEL «E lui cosa fece?». KUBRICK «Non tirò proprio fuori la pistola, ma... Me la mostrò. Mi... fece notare che ce l'aveva. E poi sorrise, non un gran sorriso, e disse di tornare dagli altri nella stanza accanto. Mi batté una mano sulla spalla e mi fece uscire per primo. Non mi sentivo molto... a mio agio per come si comportava, ma andò tutto bene. Quando gli domandarono chi aveva vinto, lui mi guardò e disse: "Una partita a testa". Non lo smentii. Tutti quelli che si intendevano di scacchi avrebbero capito che era assurdo. E quanto agli altri, pazienza». RAPHAEL «Conosci quella storia su Greg Peck e Willier Wyler?». KUBRICK «Non credo». RAPHAEL «Peck recitava nel film e lo produceva anche». KUBRICK «Sì». RAPHAEL «E il primo giorno Peck chiese a Willie di girare un suo primo piano. E’ stato Stanley Donen a raccontarmi questo storia. Willie disse che non aveva bisogno di un primo piano e Greg disse di girarlo lo stesso, poteva sempre servire. Willie disse che l'avrebbero filmato quando avrebbero avuto tempo. E continuò a rimandare fino a quando Greg, nella sua veste di produttore, minacciò di fermare il film se Willie non avesse girato quel primo piano. La gente dello studio andò a pregarlo di non compromettere tutto il film, e così Willie promise che prima della fine delle riprese l'avrebbe fatto. "Ho la tua parola? - chiese Greg. - Altrimenti abbandono il set in questo istante". E Willie: "Hai la mia parola". Andarono avanti fino all'ultimo giorno di riprese, e non avevano ancora girato quel primo piano. Sistemarono tutto per l'ultima inquadratura e Willie disse che si trattava solo di un raccordo. Fine delle riprese. Greg non riusciva a credere di non avere ancora avuto il suo primo piano, ma Willie disse che ormai era troppo tardi. E Greg: "Me l'avevi promesso. Mi avevi dato la tua parola. Come puoi farlo?". E Willie: "Sai una cosa, Greg? Quando qualcuno mi punta una pistola alla testa non c'è niente che non prometterei"». KUBRICK «Giusto. Allora ci sentiamo domani, ok?».
Quando venni contattato per la prima volta da Kubrick la mia euforia derivò, in non piccola parte, dall'idea che lui avrebbe preteso il meglio di me e sarebbe stato estremamente chiaro rispetto alla sua visione del film. Dopo più di sette mesi, mi resi conto che fino ad allora si era limitato a fare la parte del produttore; la sceneggiatura non aveva ancora attraccato, per così dire, alla sua intelligenza registica. Il suo genio si era rivelato solo nella sua infinita capacità di farmi sgobbare. Di tanto in tanto, mi forniva una tabella fatta al computer con lo scadenzario per il mio prossimo periodo di lavoro. Se mi lasciavo trascinare dall'inventiva, la campanella suonava e mi faceva rientrare nei ranghi. Dopo aver accettato la mia idea per il finale del film, mi chiese ancora, cortesemente, di «seguire lo schema stretto di Schnitzler». Intorno a metà maggio, sembrava che almeno parte dell'estate sarebbe stata libera dalla schiavitù. La sceneggiatura era stata rivista più e più volte. Sognavo di correre l'ultimo tratto al termine della mia seconda maratona consecutiva: grazie ad alcuni segnali avevo percepito che quasi certamente non sarebbe stata chiesta una terza tornata. I fax di Stanley sfioravano l'entusiasmo: «Grazie per le pagine, che vanno bene, a parte i sogni che sono ancora un po' verbosi. Prova a leggerli ad alta voce, come se li recitassi...». Era un buon consiglio; i produttori dovrebbero seguirlo più spesso. Di solito, leggono le scene senza badare ai sottintesi. Una volta John Malkovich si lamentò con me perché in una data scena il suo personaggio doveva dire quello che sentiva veramente. Trovava impossibile recitare a meno che le parole che pronunciava non fossero in qualche modo in contraddizione con quello che il personaggio provava o intendeva dire veramente. Benché Kubrick non abbia mai avuto intenzione di fornire grandi opportunità agli attori, e tantomeno affidarsi a loro per dare alle scene un senso supplementare, era ben conscio dei pericoli derivanti dal riempirgli la bocca di parole. Aveva imparato la lezione dal suo unico film davvero deludente, Lolita. Secondo me, si era affidato troppo incondizionatamente ai brillanti giochi di parole di Nabokov. E né il mellifluo Humbert Humbert di James Mason né i gigionismi del Clare Quilty di Peter Sellers aiutavano ad attenuare la verbosità del film. Stanley mi disse che l'apparente naturalezza di Mason in realtà derivava da uno sforzo intenso e angoscioso. Durante le riprese di Lolita aveva l'abitudine di stringere il pugno così forte che alla fine della giornata gli sanguinavano le palme delle mani. Portava le stigmate della propria genialità. Per quanto ne so, Kubrick non ammirò mai nessun'attrice quanto Sellers, Mason o Rossiter. Le vacche sacre di Stanley erano tutti maschi. «Hai mai visto Via col vento?», mi chiese una volta. «Certo. E chi è che non l'ha visto?». «Hai mai visto qualcuno recitare peggio di Vivien Leigh in Via col vento? Dev'essere la peggiore performance della storia del cinema. Sai una cosa? E’ veramente un brutto film». Quando avevo iniziato il lavoro di adattamento di Albertine e Fridolin all'ambientazione newyorkese, Kubrick mi aveva chiesto di scrivere tutto quello che mi veniva in mente, ma la prolissità che lui stesso aveva sollecitato gli aveva dato via via sempre più fastidio. Si dice che Giacometti abbia cercato talvolta di liberarsi delle sue abitudini realizzando sculture più corpose, ma finiva sempre per riportarle (talvolta all'ultimo momento) alle consuete proporzioni anoressiche. Kubrick adesso voleva una sceneggiatura senza corposità narrative. La sua curiosità si saziava in fretta se quello che gli si diceva, o si faceva per lui, non incontrava i suoi gusti. |
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«Un orco solitario? Un nevrotico lontano da tutti? Ma se era l'uomo più allegro che ho mai conosciuto! Nella vita privata, con lui, non si faceva che scherzare». È commosso Riccardo Aragno, l'amico italiano, giornalista, sceneggiatore, commediografo, che ha curato tutte le versioni italiane dei film di Kubrick. Aragno ha 84 anni. La sua amicizia con Kubrick risale al '61: «Ci siamo conosciuti a Londra, a casa di Peter Sellers, per cui avevo scritto The millionaires che poi, con Sofia Loren, fu diretto da Asquitt. Il giorno dopo mi chiamò a casa: "Sono Kubrick, abbiamo chiacchierato ieri a cena. Che cosa fa a colazione?". Così è iniziata la nostra amicizia. E per più di 30 anni siamo rimasti gli amici più fedeli. A Natale siamo stati insieme, mi ha promesso che avrei curato anche il suo ultimo film Eyes wide shut. Già voleva che studiassi un titolo». Su cosa si basava la vostra amicizia? «La cucina. Voleva sempre che cucinassi per lui. E il fatto che siamo due evasi, lui dall'America e io dall'Italia. Lui mi chiamava "il filosofo di casa". Insieme abbiamo anche scritto un film, su Napoleone, che poi non si è fatto. Prima di 2001 abbiamo avuto l'idea di fare un film leggermente porno, ma poi il progetto è stato accantonato». Perché era così solitario? «Diceva: "Non posso perdere tempo con gente che mi fa perdere tempo". Non si stancava mai di leggere, studiare. Era insaziabile, quasi maniacale. Sosteneva che non si mette mai abbastanza "roba" nel cervello. Però non era solo. Aveva una moglie, Christiane, conosciuta girando Orizzonti di gloria, nel '57. È la ragazza che alla fine del film canta e commuove i soldati. Aveva tre figlie. E alcuni amici». Che tipo di scherzi faceva? «Il suo "sense of humour" era graffiante, un po' crudele, come in Arancia meccanica. Ti portava via la pelle. Molti pensano che l'umorismo serva a divertire. Lui credeva che aiutasse a pensare, anche a costo di morsi e ferite. Ci voleva un pizzico di cattiveria, secondo lui, per raggiungere un livello alto di allegria». Kubrick dopo tanti anni era diventato inglese? O rimaneva americano? «Ormai di americano conservava sì e no un 30%. Negli Stati Uniti era tornato l'ultima volta per sottoporre a una commissione di senatori il suo film più politico, Il dottor Stranamore. Terminò il montaggio sulla nave. Il film si concludeva con l'ambasciatore russo che tira una torta in faccia al presidente Usa. Appena arrivato mi telefonò: "Hanno ucciso Kennedy, poche ore fa. Dobbiamo rifare il finale". Da allora non è mai tornato al suo Paese». Perché non tornava? «A Hollywood non voleva subire i condizionamenti delle grandi compagnie di produzione. A tutti i costi, voleva difendere la sua indipendenza. C'è una sua frase che ricordo. Era appena uscito Arancia meccanica che aveva suscitato polemiche, ma fatto incassi record. Lui mi disse: "Riccardo, adesso il pericolo è di pensare che si ha bisogno di due paia di scarpe"». |
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Jan Harlan, oltre ad esserne il cognato, ha lavorato con Stanley Kubrick per oltre 30 anni in qualità di produttore esecutivo di Barry Lyndon, The Shining, Full Metal Jacket e Eyes Wide Shut.
Più
recentemente ha prodotto A.I. di Spielberg e ha diretto personalmente un documentario su
Kubrick intitolato Stanley Kubrick: A Life in
Pictures.
IGNFF:
Taking a different tangent, but somewhat similar whereas A.I.'s
direction by Spielberg was sanctioned by Stanley, how did Stanley feel about
someone else following up on one of his films, as with 2010?
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