E' scomparso con Stanley Kubrick un genio assoluto del
Novecento che ha applicato le sue straordinarie qualità artistiche alla
disciplina del cinema: se avesse deciso di fare musica, fotografia o pittura il
risultato sarebbe stato identico.
Una cifra stilistica unica, non coniugabile con altre, non
riconducibile a scuole o a modelli, non conciliabile con la saccenteria e la
deriva mentale di tanto cinema contemporaneo.
Un autore che ha ossessivamente indagato i sentieri dell'uomo
per restituirci ogni volta la stessa sensazione: la vita è una chance ai
margini di un baratro.
Penetrando con una carica innovativa formidabile (sia per quanto
riguarda la tecnica registica che la natura etica del racconto) nel sistema dei
generi cinematografici hollywoodiani ne ha ribaltato i canoni, ridefinito i
codici, disaggregato le strutture narrative, "sfigurato" gli eroi.
Il suo universo è dominato dal destino, da volontà superiori,
da una logica ripetitiva e da un determinismo casuale: poche sono le possibilità
di mutare i sentieri.
Il sistema di comunicazione più diffusa e oggettivamente più
"comprensibile" tra gli uomini è la violenza: strumento di immorale
gloria patriottica (Orizzonti di gloria), beffarda irrisione della
pulsione di morte dell'intero genere umano (Il dottor Stranamore),
ricerca di identità in un mondo/caserma (Full Metal Jacket).
La storia non è imbalsamazione: anzi essa ci incalza anche
quando si mostra attraverso una galleria di quadri che
"superficialmente" ritraggono l'ascesa e la caduta sociale di un
libertino, mentre in sostanza annunciano un rivolgimento epocale (Barry
Lyndon).
La storia ci avvolge con i suoi fantasmi, con le sue presenze
demoniache: è un gigantesco organismo di sangue che preme su di noi in maniera
ostile (altro che maestra di vita). Il protagonista di Shining
è
preda non di figure diaboliche da cinema di serie B, ma più semplicemente della
Storia, di un passato della storia americana che ha lasciato tracce di baldoria,
di festa e di morte intorno a lui.
Il cinema di Kubrick è conoscenza carnale: i corpi dei soldati
accatastati nello spazio delle trincee; i corpi sinuosamente feroci,
congegni "a orologeria", di Arancia meccanica; i corpi che
vagano atterriti nell'architettura labirintica dell'Overlook Hotel in "Shining";
il corpo della ninfetta nel perverso labirinto della mente del protagonista di Lolita;
i corpi nella navicella spaziale di
2001:
Odissea nello spazio (umani, meccanici, pure luci extraterrestri).
Se pensiamo al vortice di luce verso il quale l'uomo che ci
rappresenta tutti - l'astronauta sperduto nello spazio (o nel tempo?) - viene
risucchiato, proviamo ancora un brivido. Forse esistere è un tornare indietro e
non un andare avanti. Forse una delle poche possibilità che abbiamo è
"rinascere" ciclicamente, come accade al bambino delle stelle.
E' proprio con 2001: Odissea nello spazio che
Kubrick ci obbliga a compiere il balzo più rischioso. Ci sentiamo un po' come
l'osso lanciato verso l'alto dallo scimmione preistorico. Quale futuro ci
attende? La perfetta armonia dei pianeti e delle astronavi al suono di un valzer
celebre e rassicurante oppure l'inquietante appuntamento con un nero
parallelepipedo, nel quale va ad annegare il riflesso del nostro volto, di ciò
che siamo, di ciò che non saremo più?
Stanley Kubrick ci lascia con questi interrogativi. Per la verità
non si è mai sforzato molto di darci spiegazioni. Chiuso nel suo castello
inglese, ogni tanto è venuto con i suoi film a scuoterci l'anima, l'inconscio.
Siamo rimasti regolarmente a bocca aperta: rapiti da emozioni e da
sensazioni fisiche ambigue, quasi inconfessabili. Ci ha indotti in tentazione,
come un vero creatore. Non
ha atteso però di vedere quale sentiero di conoscenza sceglieremo.
Antonio Sacchi |